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A te BIANCOLINA GIOIA MIA
personale [ ]

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de [Ada_Negri ]

2009-09-21  |     |  Înscris în bibliotecă de bogza gheorghe





Io vedo - nel tempo - una bambina. Scarna, diritta, agile. Ma non posso dire come sia, veramente, il suo volto: perché nell'abitazione della bambina non v'è che un piccolo specchio di chi sa quant'anni, sparso di chiazze nere e verdognole; e la bambina non pensa mai a mettervi gli occhi; e non potrà, più tardi, aver memoria del proprio viso di allora.
L'abitazione della bambina è la portineria d'un palazzo padronale, in una piccola via d'una piccola città lombarda.
Nel palazzo non vi sono che due inquilini, occupanti alcune stanze del secondo piano; un vecchio pensionato, magro, con la sua governante Tereson: una vecchia signora, grassa, che ogni mese cambia domestica. Il resto è tutto abitato dai padroni: gente ricca, gente nobile.
Quando rientrano in carrozza dalla passeggiata, bisogna spalancare il cancello del portone: e, siccome la nonna (custode della portineria) è troppo indebolita dagli anni, è la bambina settenne che deve farlo. Non ha mai pensato, naturalmente, che tale atto possa essere d'umiliazione; ma non lo compie volentieri.
Molto vecchia è la nonna.
Fa sempre la calza, movendo di continuo la labbra su parole senza suono, che son preghiere. Non è né buona, né cattiva. Non racconta favole. Ha una suprema indifferenza per ogni cosa. Curva, minuta, claudicante fin dai primi anni della fanciullezza, con un viso di calme linee chiuso in una cuffiettina nera allacciata sotto il mento, se qualche noia o dolore le sopravviene, non sa pronunciar che una frase, a bassa voce:
- Quell che Dio voeur.
Così avanzata nell'età, e tarda nei movimenti, vien tuttora compatita, dai padroni, nella portineria; perché da più di quarant'anni appartiene al servizio della famiglia. Potrebbe ritirarsi presso un suo figlio, che è maestro di scuola e vive in bastante agiatezza. Non vuole: preferisce lavorare, fin che può, fino all'ultimo.
Fu, in giovinezza, governante di fiducia di Giuditta Grisi, la meravigliosa «soprano-lirico», sorella della meravigliosa «soprano-leggero» Giulietta: la seguì fedelmente su tutti i palcoscenici, udì dalle quinte le acclamazioni dei pubblici, vide alle porte dei teatri le folle in delirio staccare i cavalli dalla carrozza della cantatrice: custodì nelle camere di locanda e durante lunghi viaggi in diligenza sacchetti di gioielli e di monete d'oro, carte preziose, preziosi costumi. Udì in silenzio la diva bestemmiare come un comprimario, nei momenti di malumore: la vestì in silenzio per la scena, mentre ella stoicamente premeva il fazzoletto sulla bocca, per soffocare gli urli che le strappava il male: un male uterino, ch'ella non aveva il tempo di curare.
Fu a lei che, dopo la prima notte del suo matrimonio con un magnifico patrizio di Cremona, disse la diva dal letto, allargando le braccia e dilatando le nari all'aroma del caffè:
- Peppina, ah! finalmente sono contessa Barni!
Fu lei che l'accompagnò nella villa gentilizia di Robecco sull'Oglio: infermiera vigile fino alla morte, nel tempo in cui l'insidioso male, non curato in principio nelle sue radici, doveva ucciderla in pienezza di rinomanza e di amore.
Dal suo letto di spasimi, tentava, la cantatrice, note filate, picchiettature e trilli:
- Peppina, la voce c'è ancora.
Sul punto di morire, mormorò al marito:
- Conte Barni, ti raccomando Peppina.
E la fedele seguace rimase a lui, come un lascito assunse, umilmente, devotamente, la direzione della casa: vi allevò i propri figli, un maschio e una femmina: condivise la fortunosa sorte del padrone, finché, lui spento, venne passata a un ramo secondario, già imbastardito, della famiglia.
Nella portineria che rappresenta l'ultima tappa della vecchia Peppina, alcuni ricordi si conservano di Giuditta Grisi.
Un ritratto: antica stampa in cornice nera: busto scollato fin sotto le spalle, magro collo elegante, cortissime maniche a sbuffi, viso appuntito, non bello ma di chiusa intensità, sotto l'alta pettinatura a bande lisce intorno alla fronte e a tre rigonfi a sommo del capo.
Una cassetta da viaggio, per diligenza: pesantissima, di noce massiccia. È chiusa a chiave: dentro, forse, ci sono, in custodia, le strade che percorse, le cose che vide, le avventure che incontrò.
Un singolare astuccio da lavoro, anch'esso per viaggio: formato d'un rotolo di pelle di bulgaro, tenacemente profumato, con fodera di velluto rosa stinto, divisa in tanti piccoli scompartimenti.
La bambina ama quegli oggetti, con dispotica padronanza. Ne conosce la storia; e, guardando il ritratto, sedendo sulla cassetta, accarezzando il velluto rosa stinto dell'astuccio, se la ripete, dentro di sé, con avida gioia.
È una sua personale ricchezza, della quale è gelosa.
Pensa «Anch'io andrò sul teatro».
Accanto alla portineria v'è una cameruccia bassa, buia, con un letto matrimoniale in cui vanno a dormire in tre: nonna, mamma e bambina. Due cassettoni, un tavolino, qualche sedia; e una tenda a righe grigie e blu, dietro la quale, contro una parete, in mancanza dell'armadio, vengono appesi gli abiti.
Quella tenda è il sipario.
La bambina lo solleva quando vuole. Le flosce vesti pendenti (vesti di pulita povertà) si riempiono, quando vuole, di ossa e di carne: spuntano da esse mani e teste: voci ne escono: un moto illusorio le anima. Giuditta Grisi canta. Il pubblico immaginario applaude.
Un vero pubblico assiste talvolta alle rappresentazioni: le figliole dei padroni di casa.
Maura, Clelia, Pia: tre belle fanciulle. Ascoltano in silenzio, con sgranate le pupille, le favole sceneggiate: ridono sommesse: una ve n'è fra loro, la più bella, la meno buona, che ha di continuo, negli occhi e nella bocca il guizzo d'un ghignetto schernitore. Non gliene importa niente, né della Grisi, né delle favole bizzarre, né del teatro di stracci.
La piccola artista ne soffre in cuore: ne è ferita, già come qualcuno che dia il meglio di se stesso, e senta di non essere compreso.
Ma l'oscuro corruccio dura poco. Basta che una di loro gridi: - Andiamo a giocare! - e si precipitano in giardino.
Giardino sempreverde: pini, magnolie, un cedro del Libano: pochi fiori, molta erba, profondità di ombre, sapienza di nascondigli. Giardino più bello al mondo non c'è.
Le bambine giocano a rincorrersi: quattro saette. Poi, a palla: ciascuno ha la propria: sotto l'inquanta, cento volte, senza che la mano fallisca un sol colpo. La gara eccita: più di tutte esalta la scarna portinaretta. Dopo la palla, il salto alla corda, semplice e in due tempi: il salto su un solo piede, cioè zoppin zoppetta, sino a quando il piede resiste; il salto dai gradini dello scalone d'onore, progressivo fino al rischio d'insaccarsi di schianto.
Gioia del sangue, tensione di volontà, ignara eleganza di muscoli e nervi in moto. La scarna portinaretta non si dà vinta a nessuno: dimostra a volte il freddo coraggio d'una funambola: vuole ad ogni costo sorpassarla Pia, ch'è la più svelta e par fatta di gomma. Miracolo se non si spezza una caviglia o l'osso del collo; ma vuole essere la prima, deve esser la prima, perché è povera.
Son le sette, e la mamma torna dalla fabbrica: oh, adesso è ben altra vita!

La mamma non è più giovine (s'è sposata tardi) e ha già molti capelli grigi; ma la sua voce squillante, di ragazzetta, e tutto in lei è chiaro ed energico; il passo, il movimento, lo sguardo, la parola. Visse libera nella villa di Robecco sull'Oglio, con la nonna, fin dopo i trent'anni: sposa, fu cucitrice in bianco: rimasta vedova e nella più dura miseria, dovette collocarsi come operaia in uno stabilimento di filatura e tessitura di lane.
Guadagna una lira e settantacinque centesimi al giorno: lavora tredici ore filate: spesso è costretta alla «mezza giornata» della domenica.
Ma è gaia e ride, è creatura piccola e vocale come gli uccelli, e cinguetta e canta. Vive in lei il fremito pennuto dei passeri, un'elasticità sempre nuova, una così fresca simpatia per le cose e gli esseri, che sgorga con la fluidità di certe polle fra l'erba, e ne ha la mutevole trasparenza. Non porta con sé la polverosa e grave atmosfera d'un lanificio; ma piuttosto, l'acre sentore d'una ventata di marzo, rude alla pelle, piena d'azzurro e d'elementi di vita.
Come la nonna e la bambina, si nutre di pane, latte e polenta; ed è forse la sua casta sobrietà, che la rende così leggera sulla terra.
Quando, finiti i chiacchiericci delle serve in portineria, la bambina va a letto, verso le nove e mezzo, l'uscio fra le stanze rimane aperto. Ella, quatta sotto le coltri e fingendo di dormire, ride nell'anima, perché sa che sta per scoccare l'ora meravigliosa. Di lì a poco, infatti, con la sua voce limpida, la madre, che crede la bimba addormentata, comincia a leggere forte.
Per divertir la nonna e per la propria gioia, legge, a puntate, romanzi d'appendice d'un giornale quotidiano
Ignora che la piccina ascolta, con gli orecchi tesi, con il cuore teso.
Quanta gente, quante creature più vive, più forti, più malvage, più interessanti di quelle che s'incontrano ogni giorno, in strada, nella casa, nella scuola! Tutti i suoi amici: Rocambole: Remigio senza famiglia, la portatrice di pane: e Rigoletta e Fiordi-Maria, dei «Misteri di Parigi».
Storie di vasti intrighi, di amori romantici, di romantici delitti formano la base della sua conoscenza: unite senza possibilità d'oblio alla voce della madre e al chiarore giallastro d'una lampada ad olio, penetrante dall'uscio aperto a rischiarare di scorcio una tenda-sipario a righe grige e blu, e il ritratto di Giuditta Grisi.
Qualche anno dopo, la bambina, divenuta più grandetta, ma rimasta selvatica e avida di mirifiche storia, trova in un ripostiglio un fascio di romanzi di Alessandro Dumas padre: da I tre moschettieri ad Angelo Pitou.
Vecchi libracci, ingialliti, cincischiati, rosicchiati agli angoli, mancanti di pagine qua e là: non importa. Le è come salire in un bastimento e traversare il mare.
Legge, legge, legge. Arruffa e precipita i compiti di scuola, per leggere. Respira nella favola. Un senso di letizia, di benessere pieno, ad ogni nuova lettura rinsanguato, si diffonde in lei. Ha, con i personaggi dei fantastici romanzi, colloqui d'allucinante intensità: se li raffigura e li vede, dinanzi e intorno a sé, con caratteri di fisionomia e di gesto sui quali non può sbagliare.
E quando, più tardi, l'irriflessiva compiacenza della governante Tereson (quel bravo signor Antonio, che anche lui non può vivere senza libri!) le lascerà fra le mani gli sporchi e cianciati volumi d'una biblioteca circolante, e la scolaretta tredicenne scoprirà Emilio Zola, la sua segreta gioia diverrà terribile come un'ossessione.
Le pagine impure, nelle quali più crudamente è rappresentato il vizio, e più turpi odori emana la carne, scorreranno sul suo spirito senza lasciar traccia: acqua su marmo: tanto ella è innocente. Ma la massa dell'opera, così compatta e sanguinante d'umanità, graverà su di lei con tutto il suo peso. Ella sarà malata d'una penosa malattia, dell'anima, che la renderà dissimile dalle ragazze della sua età. Distratta, a volte prostrata, presenterà a' suoi maestri componimenti pieni d'inquietudini e di squilibrio, tralucenti d'immagini e di reminiscenze torbide e confuse.
Ma ella non ama la scuola. Nessun rapporto, nessuna confidenza fra lei e il sistematico ingranaggio scolastico. È quieta, lavora, si sforza di comprendere, sa che deve, che ribellarsi non può; ma, in fondo, non desidera che di evadere. Vuole studiar da maestra, unicamente perché non intende logorarsi in un opificio come la madre, o divenir serva di signori in gioventù e portinaia in vecchiezza, come la nonna.
Ora che è quasi una giovinetta, si sente diventar di brace, poi del color dell'erba, quando deve aprire il cancello grande alla carrozza dei padroni di casa, che tornano dalla passeggiata del pomeriggio; e inghiotte acido e respira male, quando deve portar le lettere o far qualche commissione. Non invidia il lusso delle sale padronali: non le guarda nemmeno. Né le fanno gola gli squisiti mangiari, tanto l'abito della sobrietà s'è fatto natura in lei.
Solo, non vuol servire.
Quella portineria! Odiosa, con la bianca invetriata a smeriglio verso la strada, e il doppio uscio a cristalli trasparenti verso il porticato interno. Odiosa, con il campanello che squilla ad ogni entrar di persona; e bisogna rispondere: - Sì, no, i padroni ci sono, non ci sono.
E il giorno del ricevimento, con tutti quegli equipaggi alla porta, e tutte quelle signorine fruscianti in seta e velluto, che la guardano dall'alto o non la guardano nemmeno: oppure le sorridono con stupida benevolenza, e questo la fa impallidire di più!
Salgono a far visita alla signora del palazzo; maestosa femmina, che fu assai bella in giovinezza, ma ora affoga nel grasso e soffre d'ipertrofia di cuore; e sarebbe buona; ma ha modi troppo alteri e bruschi, perché le venga riconosciuta la sua bontà. Dirige la propria casa con l'energia d'un comandante di vascello, e fuma insaziabilmente, giorno e notte, sigari virginia, lunghi, dall'acre odore.
Non vuol male alle portinaretta; e pure possiede il segreto di fustigarla a sangue con poche, recise parole.
Un giorno le toglie di mano il quaderno dei componimenti: lo sfoglia come si sfoglia un taccuino quando si cerca una data, lo leggicchia quà e là; e sentenzia:
Questa non è farina del tuo sacco: roba rubacchiata, presa a prestito: via! Tu leggi troppi romanzacci bambina.



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